martedì 14 maggio 2013

Sofia si veste sempre di nero



Ci ho pensato a lungo a questa recensione. A lungo perché questo libro andava digerito bene, e non perché indigesto, al contrario. Piuttosto per evitare gli effetti dei postumi da sbronza di un buon vino con il quale si è un po’ esagerato, per gusto, per piacere, per euforia.

A distanza di tempo quindi posso dire che Cognetti ci ha regalato un piccolo gioiello. Mi hanno chiesto di “descrivere” Sofia e io l’ho fatto, e le riprendo qui quelle parole: Sofia, Sofia. Ti guardavo in treno in ogni volto di ragazza al ritorno da scuola, o dall'università, o da quell'incontro decisivo o meno per un futuro possibile, probabile, auspicabile. Ti guardavo in quegli occhi e cercavo anche me, con le mie contraddizioni di donna adulta e consapevole ma ancora irrequieta, vogliosa di inseguire un sogno qualunque perché questa realtà a volte è così oscura. Ti ho presa per mano, come una figlia, ti ho amata e ti ho anche detestata. Io non ti trovo ostile. Devi solo trovarti ancora. Magari su quel treno dove hai viaggiato ogni giorno con me. Ti ci porterò ancora...

Perché è questo che fa Sofia: avvicina e allontana. Avvicina noi che, come madri, vorremmo darle quell’accoglienza che tanto le è negata, e allontana noi che, come donne, abbiamo fatto del nostro bagaglio personale la nostra ricchezza creativa. Ma queste sono riflessioni pseudo filosofiche. La realtà è che Cognetti ha disegnato questa figura tormentata con sensibilità e accuratezza, utilizzando un linguaggio denso, senza parole superflue, inutili panegirici, descrizioni infinite. Ma le parole sono tante, e pesano, lasciano un segno forte e deciso. Non ci si può sbagliare nell'interpretazione. E' così, e basta. Niente punti di sospensione.

Questo è un libro che si può leggere anche in ordine sparso. I capitoli non sono capitoli, ma singoli racconti, o episodi, in cui cambia il narratore che, di volta in volta, sale sul proscenio e ci racconta un pezzo di storia. Ma la protagonista è sempre lei Sofia, che fa da cordone ombelicale. La differenza che trovo con le altre raccolte di racconti che pure ci sono, eccome, in letteratura (Carver, Poe,Parise, Buzzati, giusto per citarne alcuni), è proprio in questo: non è il tema che lo contraddistingue, ma il soggetto. Ecco perché alla fine è praticamente un romanzo. Riesco a intravvedere la sperimentazione stilistica fatta dalla Egan de Il tempo è un bastardo (sempre edito da Minimumfax), dove però i diversi narratori raccontano il loro punto di vista di uno stesso accadimento. Qui gli accadimenti si susseguono, il tempo narrativo passa e quindi cambia. Voglio correre il rischio di sembrare macabra ma la sensazione che si ha nel leggere è di trovarsi in uno di quei funerali americani, dove uno alla volta i parenti, gli amici, i conoscenti, salgono sul pulpito e raccontano qualcosa del defunto che solo loro conoscono, quel pezzo di strada che hanno fatto insieme, quell’aneddoto, che per un po’ di tempo li ha uniti. E man mano che i ricordi dei singoli si susseguono il ritratto di chi non c’è più prende forma, nelle coincidenze e nelle divergenze, dando vita a un inedito. Che celebrazione! Cognetti ha celebrato con Sofia tante donne, tutte racchiuse in un unico inedito soggetto. Che si veste di nero perché la vita a colori la spaventa.

Questo è un libro in cui ci sono tre luoghi fondamentali, che poi rappresentano tre tappe importanti nella vita di Sofia: Lagobello, Roma e NewYork. Ma tutto torna a Lagobello. E' come se Sofia si ritagliasse un pezzo di quel posto in qualunque luogo si trovi. Lagobello le ha dato l'imprinting, con l'isola dei pirati e Oscar, l’amico quasi fratello della sua infanzia, e tutto deve tornare lì, a quei momenti in cui lei ha cominciato a costruirsi la sua identità. Cognetti ci racconta angoli di mondo. Come vederli in soggettiva. Quando racconta Roma non si ha la sensazione della grande città quale è, non ci si sente fagocitati da grandi spazi. Tutto è circoscritto, a misura di Sofia. E lo stesso con New York. Spazi, angoli, che possono contenere una sola storia protagonista ma con tutte le vie di fuga affinché ci entrino gli altri, i comprimari.

Persone, luoghi, tempo. Questi sono ingredienti importanti per uno scrittore, a volte non serve altro per scrivere un buon libro. Sofia si veste sempre di nero di ingredienti ne ha qualcuno in più.

Titolo: Sofia si veste sempre di nero
Autore: Paolo Cognetti
Editore: Minimumfax
Pubblicazione: settembre 2012
ISBN: 978-88-7521-440-1
Prezzo: € 14,00

giovedì 9 maggio 2013

...e se lo dice Eco...


Immagine presa da qui

Ogni scrittore, poeta, blogger, giornalista, ogni persona insomma che, a un certo punto, si cimenta con l'arte dello scrivere, si domanda: come farlo? In che modo il mio affannarmi con le parole può essere efficace, accattivante, affascinante, convincente, credibile, piacevole? Mi fermo qui perché i dubbi e le domande che li generano potrebbero essere infiniti. Esistono corsi per imparare a farlo, scrivere intendo. Oppure si possono seguire pochi, semplici e logici consigli, dati da qualcuno che quest'arte la conosce bene. Se poi sono conditi con quel pizzico di ironia che di certo non guasta, possono diventare un vademecum da consultare, nei momenti di sconforto o di confusione ( e molti scrittori ne avrebbero un estremo bisogno). Spero di aver fatto tesoro di quanto Umberto Eco suggerisce in questo breve ma intenso capitolo che voglio condividere con voi. Se ho sbagliato qualcosa, mi "corriggerete".
Come scrivere bene, di Umberto Eco

Evita le allitterazioni, anche se allettano gli allocchi.
Non è che il congiuntivo va evitato, anzi, che lo si usa quando necessario.
Evita le frasi fatte: è minestra riscaldata.
Esprimiti siccome ti nutri.
Non usare sigle commerciali & abbreviazioni etc.
Ricorda (sempre) che la parentesi (anche quando pare indispensabile) interrompe il filo del discorso.
Stai attento a non fare... indigestione di puntini di sospensione.
Usa meno virgolette possibili: non è “fine”.
Non generalizzare mai.
Le parole straniere non fanno affatto bon ton.
Sii avaro di citazioni. Diceva giustamente Emerson: “Odio le citazioni. Dimmi solo quello che sai tu.”
I paragoni sono come le frasi fatte.
Non essere ridondante; non ripetere due volte la stessa cosa; ripetere è superfluo (per ridondanza s’intende la spiegazione inutile di qualcosa che il lettore ha già capito).
Solo gli stronzi usano parole volgari.
Sii sempre più o meno specifico.
L'iperbole è la più straordinaria delle tecniche espressive.
Non fare frasi di una sola parola. Eliminale.
Guardati dalle metafore troppo ardite: sono piume sulle scaglie di un serpente.
Metti, le virgole, al posto giusto.
Distingui tra la funzione del punto e virgola e quella dei due punti: anche se non è facile.
Se non trovi l’espressione italiana adatta non ricorrere mai all’espressione dialettale: peso el tacòn del buso.
Non usare metafore incongruenti anche se ti paiono “cantare”: sono come un cigno che deraglia.
C’è davvero bisogno di domande retoriche?
Sii conciso, cerca di condensare i tuoi pensieri nel minor numero di parole possibile, evitando frasi lunghe — o spezzate da incisi che inevitabilmente confondono il lettore poco attento — affinché il tuo discorso non contribuisca a quell’inquinamento dell’informazione che è certamente (specie quando inutilmente farcito di precisazioni inutili, o almeno non indispensabili) una delle tragedie di questo nostro tempo dominato dal potere dei media.
Gli accenti non debbono essere nè scorretti nè inutili, perchè chi lo fà sbaglia.
Non si apostrofa un’articolo indeterminativo prima del sostantivo maschile.
Non essere enfatico! Sii parco con gli esclamativi!
Neppure i peggiori fans dei barbarismi pluralizzano i termini stranieri.
Scrivi in modo esatto i nomi stranieri, come Beaudelaire, Roosewelt, Niezsche, e simili.
Nomina direttamente autori e personaggi di cui parli, senza perifrasi. Così faceva il maggior scrittore lombardo del XIX secolo,l’autore del 5 maggio.
All’inizio del discorso usa la captatio benevolentiae, per ingraziarti il lettore (ma forse siete così stupidi da non capire neppure quello che vi sto dicendo).
Cura puntiliosamente l’ortograffia.
Inutile dirti quanto sono stucchevoli le preterizioni.
Non andare troppo sovente a capo.
Almeno, non quando non serve.
Non usare mai il plurale majestatis. Siamo convinti che faccia una pessima impressione.
Non confondere la causa con l’effetto: saresti in errore e dunque avresti sbagliato.
Non costruire frasi in cui la conclusione non segua logicamente dalle premesse: se tutti facessero così, allora le premesse conseguirebbero dalle conclusioni.
Non indulgere ad arcaismi, hapax legomena o altri lessemi inusitati, nonché deep structures rizomatiche che, per quanto ti appaiano come altrettante epifanie della differenza grammatologica e inviti alla deriva decostruttiva – ma peggio ancora sarebbe se risultassero eccepibili allo scrutinio di chi legga con acribia ecdotica – eccedano comunque le competenze cognitive del destinatario.
Non devi essere prolisso, ma neppure devi dire meno di quello che una frase compiuta deve avere.